Da questo dicembre, il Centro Yoga Satyananda di Milano, ha deciso di pubblicare una serie di Satsang (discorsi) tenuti da Satyananda e da altri grandi maestri della Bihar School. Iniziamo la pubblicazione di questa serie di contributi con uno scritto di Renè Guenon del 1924, la sua introduzione a “Oriente e Occidente”, Luni editore 1993.
Rudyard Kipling scrisse un giorno queste parole: «East is East and West is West, and never the twain shall meet, L’Oriente è l’Oriente e l’Occidente è l’Occidente, e i due mai s’incontreranno».
Vero è che, nel seguito del testo, egli modifica la sua affermazione, ammettendo che «la differenza scompare quando due uomini forti si trovino a faccia a faccia, dopo essere venuti dalle estremità della terra»; in realtà anche questa precisazione non è del tutto soddisfacente, perché è ben poco probabile che così dicendo egli abbia pensato ad una «forza» di ordine spirituale. Comunque sia, l’abitudine è di citare isolatamente il primo verso, come se tutto ciò che rimane nel pensiero del lettore fosse l’idea della differenza insormontabile che esso esprime; indubbiamente quest’idea rappresenta l’opinione della maggior parte degli Europei, e si sente in essa affiorare tutta la stizza del conquistatore costretto ad ammettere che coloro che crede di aver vinto e sottomesso portano in sé qualcosa su cui egli non può aver presa. Ma, qualunque sia il sentimento che ha dato origine a una tale opinione, quel che ci interessa innanzitutto è sapere se essa sia fondata, o in quale misura lo è. Certamente, se si considera lo stato attuale delle cose, si trovano molteplici indizi che sembrano giustificarla; e tuttavia se noi la condividessimo completamente, se pensassimo che nessun avvicinamento è possibile né mai lo sarà, non avremmo intrapreso a scrivere questo libro.
Forse più di chiunque altro noi abbiamo coscienza di tutta la distanza che separa l’Oriente dall’Occidente, soprattutto dall’Occidente moderno; del resto, nella nostra Introduzione generale allo studio delle dottrine indù, abbiamo particolarmente insistito sulle differenze, a tal punto che qualcuno ha potuto pensare a una certa esagerazione.
Siamo tuttavia persuasi di non aver detto nulla che non sia rigorosamente esatto; nello stesso tempo abbiamo però preso in considerazione, nella conclusione del nostro studio, le condizioni di un riavvicinamento intellettuale, il quale, pur se verosimilmente abbastanza lontano, ci appariva ciò nonostante possibile.
Se allora ci pronunciammo contro le false assimilazioni tentate da certi Occidentali, è proprio perché esse sono uno dei principali ostacoli che si oppongono a questo riavvicinamento; quando si parte da una concezione erronea, sovente i risultati sono opposti al fine che ci si era proposto. Rifiutandosi di vedere le cose come sono e di riconoscere certe differenze attualmente irriducibili, ci si condanna a non comprendere nulla della mentalità orientale, e in tal modo non si fa che aggravare e perpetuare i malintesi, mentre, al contrario, bisognerebbe prima di tutto cercare di dissiparli.
Fintanto che gli Occidentali immagineranno che esista un solo tipo di umanità e non ci sia che una sola «civiltà», a diversi gradi di sviluppo, nessuna intesa sarà mai possibile. La verità è che esistono molteplici civiltà, le quali si sono sviluppate in direzioni molto differenti, e che la civiltà dell’Occidente moderno presenta caratteri tali da far di essa un’eccezione piuttosto singolare.
Non si dovrebbe mai parlare di superiorità o di inferiorità, in senso assoluto, senza precisare da quale punto di vista si considerano le cose che si intendono confrontare; ammesso che effettivamente esse siano comparabili.
Non esiste una civiltà superiore alle altre sotto tutti gli aspetti, e ciò sia perché non è possibile all’uomo sviluppare la propria attività in modo uguale e contemporaneamente in tutte le direzioni, sia perché esistono sviluppi che si dimostrano veramente incompatibili.
È però lecito pensare che una certa gerarchia debba essere rispettata, e che le cose di carattere intellettuale, per esempio, valgano più di quelle di ordine materiale; se così è, una civiltà che si dimostri inferiore nei riguardi delle prime, quando pur sia incontestabilmente superiore dal secondo punto di vista, si troverà sempre essere svantaggiata nell’insieme, qualunque siano le apparenze esteriori: è questo il caso della civiltà occidentale quando sia messa a confronto con le civiltà orientali.
Sappiamo perfettamente che questo modo di vedere infastidisce la gran maggioranza degli Occidentali, contrario com’è a tutti i loro pregiudizi; ma, a parte ogni questione di superiorità, essi saranno almeno disposti ad ammettere che le cose a cui attribuiscono l’importanza più grande non necessariamente interessano tutti gli uomini nella stessa misura, che certuni possono anche considerarle come completamente trascurabili, e che si può dar prova di intelligenza in altri modi oltre che costruendo delle macchine. Sarebbe già qualcosa se gli Europei arrivassero a capire questo e si comportassero di conseguenza; le loro relazioni con gli altri popoli ne risulterebbero un poco modificate, e in modo grandemente vantaggioso per tutti.
Questo è però soltanto l’aspetto più esteriore della questione: se gli Occidentali riconoscessero che non tutto, nelle altre civiltà, è necessariamente da disprezzare per l’unica ragione che esse sono differenti dalla propria, nulla più impedirebbe loro di studiare queste civiltà nel modo giusto, senza il partito preso, cioè, di denigrarle, e senza ostilità preconcetta; grazie a uno studio di questo genere taluni di essi non tarderebbero forse ad accorgersi di tutto quel che manca a loro stessi, soprattutto da un punto di vista puramente intellettuale.
Presupponiamo naturalmente che costoro sarebbero stati in grado di pervenire, almeno in una certa misura, alla comprensione vera dello spirito delle diverse civiltà, ciò che richiede ben altro che lavori di semplice erudizione; indubbiamente non tutti sono atti a tale comprensione, ma se qualcuno lo fosse, come pare nonostante tutto probabile, ciò potrebbe essere sufficiente per condurre presto o tardi a risultati inestimabili.
Già abbiamo fatto allusione alla funzione che potrebbe avere un’élite intellettuale se essa giungesse a costituirsi nel mondo occidentale, nel quale agirebbe a modo di «fermento» per preparare e dirigere nel senso più favorevole una trasformazione mentale che un giorno o l’altro, si voglia o no, diventerà inevitabile. Alcuni, del resto, cominciano a sentire più o meno confusamente che le cose non possono continuare indefinitamente ad andare nel senso in cui vanno, e addirittura a parlare di un «fallimento» della civiltà occidentale come di una possibilità, cosa che solo pochi anni fa nessuno avrebbe osato fare; sennonché le vere cause che possono provocare questo fallimento sembrano ancora sfuggir loro in gran parte.
Poiché queste cause sono precisamente, nello stesso tempo, quelle che impediscono ogni intesa tra l’Oriente e l’Occidente, dalla loro conoscenza si potrà trarre un doppio beneficio: lavorare a preparare questa intesa sarà anche sforzarsi per evitare le catastrofi da cui l’Occidente è minacciato per colpa propria; i due fini sono molto più strettamente collegati di quanto si potrebbe credere.
Denunciare gli errori e le illusioni occidentali, come abbiamo nuovamente intenzione di fare in primo luogo, non è dunque affatto un’opera di critica vana e puramente negativa; le ragioni di questa attitudine sono ben altrimenti profonde, né noi mettiamo in ciò alcuna intenzione «satirica», che del resto si addirebbe assai poco al nostro carattere; se qualcuno ha creduto di vedere qualcosa di simile nel nostro atteggiamento si è singolarmente sbagliato.
Da parte nostra, preferiremmo di gran lunga non aver bisogno di dedicarci a questo lavoro piuttosto ingrato, e poterci accontentare di esporre certe verità senza mai doverci preoccupare delle interpretazioni false, le quali non fanno che complicare e imbrogliare le questioni senza nessun costrutto; sennonché è indispensabile tener conto anche di queste contingenze, giacché, se non cominciassimo con lo sbarazzare il campo, tutto quel che abbiamo da dire rischierebbe di rimanere incompreso.
D’altra parte, anche quando sembri che ci limitiamo a eliminare errori o a rispondere ad obiezioni, possiamo sempre trovare l’occasione di esporre cose che hanno un’importanza realmente positiva; mostrare perché certi tentativi di riavvicinamento fra Oriente e Occidente sono falliti, non è già forse, ad esempio, far intravedere per contrasto le condizioni a cui una simile impresa sarebbe invece suscettibile di successo?
Speriamo perciò che le nostre intenzioni non siano fraintese; e se non cerchiamo di dissimulare le difficoltà e gli ostacoli, se al contrario insistiamo su di essi, ciò è dovuto al fatto che per poterli appianare e superare bisogna prima di tutto conoscerli. Non possiamo soffermarci su considerazioni troppo secondarie, né domandarci ciò che piacerà o non piacerà a ognuno; l’argomento che affrontiamo è ben altrimenti serio, anche a volersi contenere a quelli che possiamo chiamare i suoi aspetti esteriori, vale a dire a quanto non si riferisce all’ordine dell’intellettualità pura.
In effetti, noi non intendiamo far qui un’esposizione dottrinale, e ciò che diremo sarà in generale accessibile a un pubblico più vasto di quello che le vedute espresse nella nostra Introduzione generale allo studio delle dottrine indù hanno potuto raggiungere.
Neppure quest’opera, tuttavia, era stata scritta per pochi «specialisti»; se qualcuno è stato in questo senso tratto in inganno dal suo titolo, è perché questi argomenti sono abitualmente l’appannaggio di eruditi che li studiano in modo piuttosto ostico e, ai nostri occhi, privo di vero interesse.
Il nostro atteggiamento è ben diverso: per noi si tratta essenzialmente, non di erudizione, ma di comprensione, che è totalmente diverso; non è certo fra gli «specialisti» che si hanno le maggiori probabilità d’incontrare le possibilità di una comprensione estesa e profonda, al contrario; e salvo rarissime eccezioni, non è su di loro che c’è da contare per formare quell’élite intellettuale di cui abbiamo parlato. È probabile che taluni abbiano giudicato un male il nostro attacco all’erudizione, o piuttosto ai suoi abusi e ai suoi pericoli, pur se ci siamo astenuti accuratamente da tutto quel che avrebbe potuto presentare i caratteri di una polemica; sennonché, una delle ragioni per le quali abbiamo condotto questo attacco, è precisamente che l’erudizione, con i suoi metodi speciali, ha l’effetto di distogliere da determinate cose proprio coloro che sarebbero più capaci di comprenderle.
Molti infatti, vedendo che si tratta di dottrine indù e pensando subito ai lavori di qualche orientalista, immaginano che «non è pane per i loro denti»; ora, fra costoro vi sono certamente degli individui che hanno il torto più completo a pensare in questo modo, e ai quali forse non occorrerebbero molti sforzi per acquisire conoscenze che gli stessi orientalisti non hanno e non avranno mai: una cosa è l’erudizione, un’altra il sapere reale, e anche se non sempre i due sono incompatibili, non è affatto vero che essi siano necessariamente solidali. Indubbiamente se l’erudizione acconsentisse a contenersi nel compito ausiliario che deve normalmente competerle, non troveremmo nulla a ridire, dal momento che con ciò stesso cesserebbe di essere pericolosa, e anzi, potrebbe avere qualche utilità; entro questi confini riconosceremmo molto volentieri il suo valore relativo.
Ci sono casi in cui il «metodo storico» è legittimo, e l’errore contro cui ci siamo dichiarati consiste soltanto nel credere che esso sia applicabile a tutto, e nel voler trarre da esso qualche cosa di diverso da ciò che può effettivamente dare; pensiamo di aver dimostrato altrove, senza con ciò esserci messi minimamente in contraddizione con noi stessi, di essere capaci di applicare questo metodo altrettanto bene quanto chiunque altro, quando ne sia il caso, e ciò dovrebbe essere sufficiente a provare che non abbiamo nessun «partito preso» contro di esso.
Ogni questione deve essere trattata seguendo il metodo che conviene alla sua natura; è un ben strano fenomeno questo, di cui l’Occidente ci dà abitualmente spettacolo, d’una confusione di ordini diversi e di differenti domini. Insomma, occorre saper mettere ogni cosa al suo posto, e noi non abbiamo mai detto niente di diverso; sennonché, seguendo questa linea, ci si accorge per forza che vi sono cose che possono essere soltanto secondarie e subordinate nei confronti di altre, nonostante le manie «ugualitaristiche» di certi nostri contemporanei; è per questo che l’erudizione, anche quando presenti qualche valore, non può essere per noi che un mezzo, e mai un fine in se stessa.
Queste spiegazioni ci sono parse necessarie per diverse ragioni: prima di tutto, teniamo a dire quel che pensiamo nel modo più netto possibile, tagliando corto con ogni malinteso, anche nel caso che questo sorga nonostante le nostre precauzioni, ciò che è pressoché inevitabile.
Pur riconoscendosi generalmente la chiarezza dei nostri scritti, ci sono state talvolta attribuite delle intenzioni che non abbiamo mai avuto; avremo qui l’occasione di dissipare alcuni equivoci e di precisare certi punti sui quali non ci eravamo forse sufficientemente spiegati. In secondo luogo, la diversità degli argomenti che trattiamo nei nostri studi non compromette affatto l’unità della concezione che vi presiede; teniamo anzi, in particolare, all’affermazione espressa di questa unità, che potrebbe passare inosservata a coloro che vedono le cose troppo in superficie.
I nostri studi sono talmente legati gli uni agli altri che per molti dei punti che toccheremo qui, avremmo dovuto, ai fini di un’esposizione più completa, rimandare il lettore alle indicazioni complementari che si trovano negli altri nostri scritti; questo l’abbiamo fatto soltanto quando ci è parso strettamente indispensabile; per tutti gli altri casi, ci accontenteremo di questo avvertimento dato una volta per tutte e in modo generale, al fine di non importunare il lettore con riferimenti troppo numerosi. Sempre in quest’ordine di idee, dobbiamo ancora far notare che, anche quando non giudichiamo che sia il caso di dare all’espressione del nostro pensiero una forma propriamente dottrinale, ciò non impedisce che ci ispiriamo costantemente alle dottrine di cui abbiamo compreso la verità: è lo studio delle dottrine orientali che ci ha permesso di scorgere i difetti dell’Occidente e la falsità di un gran numero delle idee che hanno corso nel mondo moderno; è in queste dottrine, e sol- tanto in esse, che abbiamo trovato, come già ci è occorso di dire altrove, delle cose di cui l’Occidente non ci ha mai offerto il minimo equivalente.
In quest’opera, come del resto nelle altre nostre, non abbiamo assolutamente la pretesa di esaurire tutte le questioni che saremo condotti ad esaminare; pensiamo che non ci possa venir rimproverato di non scrivere tutto in un solo libro, ciò che, d’altra parte, sarebbe assolutamente impossibile.
Quel che ci accontenteremo di indicare qui, lo potremo forse riprendere e spiegare più completamente altrove, se le circostanze ce lo permetteranno; se ciò non si avvererà, quel che ne avremo detto potrà almeno suggerire ad altri delle riflessioni che suppliranno, in modo utilissimo per loro, agli sviluppi che non avremo noi stessi potuto fornire.
Vi sono cose che a volte è interessante notare incidentalmente anche se non ci si può soffermare su di esse, e noi non pensiamo che sia meglio passarle interamente sotto silenzio; conoscendo però la mentalità di un certo pubblico, crediamo necessario avvertire che in ciò non vi è da vedere niente di straordinario.
Sappiamo troppo bene cosa valgano i cosiddetti «misteri», di cui nella nostra epoca si è tanto sovente abusato, i quali non sono tali se non perché coloro che ne parlano sono i primi a non capirne niente; il vero mistero è soltanto quello che per la sua stessa natura è inesprimibile.
Non pretendiamo tuttavia che sia sempre ugualmente bene dire in modo aperto qualsiasi verità, o che non vi siano dei casi in cui un certo riserbo si impone per ragioni di opportunità, o cose che sarebbe più dannoso che utile esporre pubblicamente; ma ciò avviene soltanto in certi campi di conoscenza in fondo abbastanza ristretti, e se d’altronde qualche volta ci capita di fare allusione a cose di questo genere, non manchiamo mai di dichiarare formalmente di cosa si tratta, senza ricorrere a nessuna di quelle chimeriche proibizioni che gli scrittori di certe scuole tirano in ballo ad ogni piè sospinto, vuoi per provocare la curiosità dei loro lettori, vuoi, più semplicemente, per dissimulare il loro imbarazzo. Simili artifici ci sono del tutto estranei, non meno che le creazioni puramente letterarie; il nostro proposito è soltanto di dire ciò che è, nella misura in cui lo conosciamo e come lo conosciamo. Non possiamo dire tutto quel che pensiamo perché ciò ci condurrebbe spesso troppo lontano dal nostro argomento, e anche perché il pensiero va oltre i limiti dell’espressione in cui si cerca di racchiuderlo; non diciamo però mai nient’altro che quel che realmente pensiamo.
Per questo non possiamo ammettere che le nostre intenzioni siano travisate, che ci si facciano dire cose diverse da quelle che diciamo, o che si cerchi di scoprire, dietro ciò che diciamo, non sappiamo bene qual pensiero dissimulato o mascherato, che è completamente immaginario. Saremo sempre invece riconoscenti a coloro che ci segnaleranno dei punti su cui parrà loro utile avere più ampi schiarimenti, e ci sforzeremo di dar loro soddisfazione in futuro; ma abbiano costoro la compiacenza di attendere che ci sia data la possibilità di farlo, e non si affrettino a trarre conclusioni su dati insufficienti; e, soprattutto, non attribuiscano a nessuna dottrina la responsabilità delle imperfezioni o delle lacune della nostra esposizione.